Possono tagliare i nostri fiori, ma non possono fermare la primavera
Il 9 gennaio del 2013 a Parigi sono state uccise dai servizi segreti dello stato turco Sakine Cansız (Sara), Leyla Şaylemez (Ronahî) e Fidan Doğan (Rojbîn).
In loro vivo ricordo dedichiamo un pomeriggio di letture collettive a uno dei testi cardine del movimento curdo ”Tutta la mia vita è stata una lotta” scritto proprio da Sakine Cansiz, tra le fondatrici del PKK nel 1978.
Condividiamo in avvicinamento alle letture la Dichiarazione del Consiglio delle donne siriane diffuso il 20 dicembre del 2024. È documento che raccoglie le rivendicazioni di tutte le donne della Siria e afferma la volontà di lotta per non perdere quello che faticosamente la rivoluzione della Siria del Nord-Est ha messo in pratica e per allargarlo a tutta la Siria.
Sono parole di forza, di lotta e di autodeterminazione di tutte le donne in un momento storico di durissimo attacco ai popoli siriani, in cui la resistenza curda si è intensificata per proteggere i traguardi della rivoluzione.
Parole per la liberazione dal patriarcato, in un tempo in cui il femminicidio viene usato abitualmente come arma da un potere minacciato e spaventato dall’inarrestabilità della rivoluzione delle donne.
Di seguito la Dichiarazione e un breve estratto da Tutta la mia vita è stata una lotta (vol. 1) in cui Sakine narra i suoi primi anni di vita.
Nata in inverno
Sono venuta al mondo proprio a capodanno del 1958 nel villaggio Tahtı Halil a Dersim. Mio padre a quel tempo era militare. La mia nascita fu registrata durante una sua vacanza nel mese di febbraio, quindi la mia data di nascita ufficiale è il 12 febbraio del 1958. Che sia una grande fortuna essere nata nel mezzo del rigido inverno? La cosa migliore è se inizio da questo punto a credere nella fortuna. Dunque per me essere venuta al mondo a capodanno in pieno inverno in una zona molto nevosa significa una grande fortuna. Il nostro villaggio era composto da venti famiglie. Tutte le case si trovavano sui due lati di una strada. Nel punto più alto vivevano i Kocademir, nel punto più basso la famiglia Duymaz. Erano entrambe famiglie molto grandi e amate nel villaggio. La nostra casa era nel mezzo del villaggio proprio accanto alla fonte. I nostri vicini più prossimi erano lo zio İbrahim e la sua famiglia. Era considerato l’uomo più allegro, divertente e coraggioso del villaggio. Si raccontava spesso di come avesse combattuto nei campi con un orso, di come si fosse rimesso a posto gli organi interni lacerati dall’orso e di come fosse poi tornato al villaggio. O meglio, si lasciava che fosse lui a raccontare. Era una specie di Nasrettin Hoca20 del villaggio, lo zio İbrahim. Gli abitanti del villaggio si riunivano per lo più nel cortile sotto la fonte. Tutti venivano lì per stare in compagnia. I vecchi si prendevano in giro l’un l’altro e scherzavano. Si rideva sempre molto.
La fonte nel villaggio era stata fatta di recente. L’acqua proveniva da alture che si trovavano a diverse ore di distanza verso Mazgirt. La sorgente si trovava sul territorio di un altro villaggio. Per questo era stata pagata una certa somma di denaro. Lo scavo del canale e la posa delle tubazioni erano state realizzate dagli uomini dal villaggio. Camminando lungo i tubi di ferro, si poteva raggiungere la sorgente. Quando eravamo piccoli per noi era entusiasmante camminare seguendo i tubi, come se avessimo potuto scoprire qualcosa di nuovo lungo la strada. La fonte era grande e in calcestruzzo. Davanti c’era una bella vasca a forma di scatola alla quale si accedeva da alti e larghi gradini sui due lati. La fonte e la zona circostante erano sempre molto puliti.
In genere era Xezal, una coraggiosa donna della famiglia Kocademir, che si occupava della pulizia. Era di statura possente, aveva sopracciglia folte, una faccia enorme con un grande naso e narici larghe. Il kofi 21 sulla sua testa era in ordine, il velo era ornato di grandi perle e ricami ed era sempre bianco brillante. L’orlo della sua gonna era ornato di pieghe, sopra la gonna indossava uno scialle e sotto pantaloni con elastici che in zaza chiamiamo “manıs”. Uno spetta- colo che valeva la pena vedere era quando immergeva il suo enorme secchio di rame nell’acqua. Prima di tutto puliva l’intero posto con acqua abbondante, poi si lavava le mani, il viso e i piedi, infine riempiva il suo contenitore d’acqua. Era una sua abitudine fissa. Forse per questo guardavo Xezal sempre con interesse. Tutte le persone del villaggio rimanevano impressionate dalle sue operazioni di pulizia, in qualsiasi condizione atmosferica. Le case del villaggio erano solita- mente tutte pulite, ma Xezal e la sua casa erano qualcosa di speciale. Aveva polsi e caviglie grosse, alle quali portava una fascia di perle.
Xeyzan della famiglia Duymaz era l’esatto contrario. Aveva una voce roca e un fisico morbido, alto e sottile. A differenza di Xeyzan, Xezal era autoritaria. La sua autorità domestica si propagava anche all’esterno. Andava oltre il naturale rispetto di cui godevano le vecchie anziane del villaggio. A contatto con gli altri si comportava in maniera accorta.
Le giovani donne sposate del villaggio si adeguavano alle tradizioni dominanti. Non c’era nessuna pressione aperta nei loro confronti, tuttavia dovevano conformarsi a determinate regole di comporta- mento nel relazionarsi agli anziani, uomini e donne. Se incontravano o parlavano con un anziano, nascondevano la metà del loro viso con il velo. Si richiedeva il necessario rispetto. Era abitudine inoltre non parlare a voce alta o in momenti inopportuni. I neonati non poteva no essere attaccati ovunque al seno, o questo era coperto durante l’allattamento con il velo. Per le donne un po’ più grandi era più facile.
La vedova Emoş, la cui casa si trovava nella stessa linea della nostra sull’altro lato della fonte, aveva una posizione speciale nel villaggio. Aveva sei figli ed era ancora molto giovane. Tutto quello che faceva attirava l’attenzione e veniva giudicato in modo sbagliato. Alle al- tre donne non piaceva particolarmente. A proposito di lei, fu subito chiaro che veniva guardata con sospetto e gelosia perché era vedova. Di conseguenza c’erano molti pettegolezzi nei suoi confronti. Tuttavia in generale la vita del villaggio era armoniosa, con le sue relazioni cordiali, un trattamento rispettoso e poche dispute. Non accadeva niente che ne potesse disturbare seriamente l’equilibrio.
(Pp. 24-26)
Figli del genocidio di Dersim1: mia madre e mio padre
Mia madre e mio padre sono figli del genocidio di Dersim. Erano nati in quegli anni. Mia madre è di un paio di anni più giovane di mio padre. Mio padre ricorda ancora la repressione e i tempi difficili dopo il massacro. Ne raccontava anche. […] Durante gli anni del massacro, mia madre portava ancora i pannolini. Mia nonna la nascose insieme ai suoi figli, nuore e nipoti in una fitta foresta vicino alle rive del Munzur. Non poteva neanche allattare i suoi figli. Mia madre era la bimba più piccola e piangeva continuamente dalla fame. Per paura che la sua voce potesse tradire la loro posizione, mio zio voleva buttare mia madre avvolta in fasce nel Munzur. Sull’altro lato del Munzur c’era una strada di nuova costruzione che veniva utilizzata da veicoli militari. I soldati talvolta si fermavano per riposare. Pertanto, il rischio che il pianto della bambina potesse essere udito era grande. Mio zio volle così strappare mia madre dalle braccia di mia nonna e buttarla in acqua. Ma mia nonna gridò, si riprese mia madre e la strinse tra le sue braccia. Pregò mio zio e giurò che avrebbe potuto far stare zitta la bambina. Così mia madre si salvò. Più avanti, quando mia madre era molto arrabbiata o trovava la vita insopportabile, usava rivolgersi a lei con rabbia: “Ah, se mi aveste gettata in acqua, adesso mi sarei risparmiata tutto questo”. Era per lo più mio zio a raccontare i ricordi di quel periodo.
Erano i ricordi di mio padre di quel tempo a colpirci di più. Le sue esperienze erano più particolareggiate e dolorose. Quando le raccontava, era sempre come se stesse vivendo tutto di nuovo. Aveva buona memoria e ricordi nitidi. Negli anni successivi li espresse anche in poesie e canzoni con il suo Saz25.
Il genocidio di Dersim durò fino agli anni quaranta. Ancora negli anni tra il 1940 e il 1945 i villaggi venivano attaccati da unità militari. Gli uomini venivano rastrellati e condotti in postazioni militari. Mio padre non si ricordava esattamente quanti anni avesse, ma l’esperienza era rimasta nella sua memoria sempre viva. Avrei voluto essermi annotata tutto quello che raccontava.
(Pp. 26-28)
Mio padre non mi ha lasciata andare a scuola
Mio padre nel villaggio era fra coloro i quali erano andati a scuola. Aveva terminato la scuola elementare. I suoi compagni di classe erano Ali Gultekin, Kemal Burkay, Hüseyin Yıldırım… Quando raccontava di quel periodo, menzionava sempre anche questi nomi. Soprattutto con Ali Gultekin sentiva una vicinanza perché provenivano dallo stesso villaggio e avevano condiviso le stesse condizioni di vita.
Mia madre, invece, non è mai andata a scuola. Ad ogni buona occasione si lamentava di suo padre dal profondo del cuore, perché non le aveva permesso di frequentare la scuola. Mia madre godeva di un’influenza basata sul vantaggio di provenire da una famiglia benestante. Inoltre mio padre era influenzato dalla cultura alevita e aveva rispetto nei confronti delle donne e agiva di conseguenza. In questo modo lei appariva ancora più influente.
In generale, in società, viene menzionato il nome dell’uomo o del padre quando si parla di famiglia, di figli o di proprietà. Da questo apparentemente deriva una sorta di diritto naturale che nessuno trova strano. Poche cose sono controllate dalle donne. Da noi però in questo contesto si parlava sia di Zeynep sia di Ismail. […]
Il nome di mia nonna era Hatice, ma tutti la chiamavano Eze. Era alta e robusta, aveva la carnagione chiara e gli occhi blu. In realtà non si poteva dire se fossero blu o verdi. Quando dico blu, sicuramente faccio torto al verde e viceversa. I suoi occhi erano molto belli. Era una donna molto bella e attraente, mia nonna. Con il suo duro lavoro, la sua grazia e la sua capacità di avere tutto sotto controllo, esercitava una forte influenza sulle persone che la circondavano. Disponeva di una straordinaria lungimiranza nella vita. I suoi nipoti, figli, nuore, i vicini, i parenti, la gente del suo villaggio e tutti gli amici la chiamavano Eze. Il rispetto che le era tributato in generale era percepibile chiaramente.
Dopo la morte di mio nonno, il rispetto nei suoi confronti e la sua influenza crebbero ancor di più. Sulle sue spalle si posava d’ora in avanti la responsabilità di una grande famiglia con ampie relazioni. Che si trattasse di sposare una figlia della famiglia o di prendere una nuora in casa, nelle controversie o nei conflitti, mai era possibile una soluzione senza di lei. Niente accadeva senza il suo consenso. Ave- va un grande cuore. Aiutava tutti quelli che si trovavano in stato di necessità. A questo proposito dava molta importanza alla giustizia e cercava di non ferire nessuno. Tuttavia non mancavano gelosie e litigi. Soprattutto le sue figlie e i parenti stretti ingigantivano piccole differenze e la accusavano di favorire alcune persone. Poi credevano che mia nonna li amasse meno di altri. Questa gelosia metteva mia nonna in difficoltà, perché era sempre attenta a non favorire nessuno. Aiutava chi aveva bisogno, ad esempio gli sposi novelli, o chi avesse subito una perdita.
Ogni volta che nasceva una crisi a causa della gelosia e dello spirito di contesa, mio nonno faceva la sua apparizione, anche quando non era più in vita. A Dersim di solito si giura su “Düzgün Baba26”. Ma nella mia famiglia si usava giurare sulla “testa di mio nonno”. Quando mia nonna pronunciava un tale giuramento, i malintesi venivano cancellati e tutti le credevano.
Era una donna molto forte, mia nonna. Padroneggiava ogni argomento ed era molto dotata. Soprattutto di notte andava da sola a passeggiare e ascoltava quello che succedeva. Se lupi o altri animali selvatici si avvicinavano alle stalle, gridava ad alta voce con la sua voce potente e faceva fuggire gli animali. Sapeva sempre se qualcuno stava male o se ci fosse stato un litigio e quindi se ne occupava. Questa sua attenzione verso il prossimo favoriva la sua reputazione.
Nella casa di mia nonna c’era sempre tè appena fatto. La sua gran- de teiera era costantemente sul fuoco. Il nostro villaggio era proprio sulla strada. Chi viveva in un altro villaggio, doveva passare attraverso il nostro. Molte persone si riposavano dalla stanchezza del viaggio in casa di mia nonna. Mangiavano il suo cibo e bevevano il suo tè. In questo modo si formavano molte buone amicizie e mia nonna ampliava costantemente la sua cerchia di conoscenti.
Le qualità di mia nonna sono sempre state per me fonte di interesse. La ammiravo e ne seguivo ogni mossa. Soprattutto la osservavo impressionata quando si alzava presto ogni mattina, guardando l’alba in piedi, pregando con il viso rivolto verso il sole e terminava la sua preghiera passandosi i palmi delle mani sul viso. Lo stesso faceva al sorgere della luna. Pregava al sorgere e al tramonto del sole e della luna. Ai tramonti il suo viso sembrava triste. Tuttavia le preghiere, i pianti e le suppliche che faceva quando c’era un’eclissi di sole o di luna, mi facevano tremare tutto il corpo. Poi la malinconia si posava nell’aria, l’oscurità era spaventosa e si creava uno stato d’animo di disperazione e di dolore. Mia nonna voleva che il buio cessasse rapidamente. Poi preparava subito il tipo di pane con tanto burro, quello che noi chiamiamo niyaz.
Un’altra sua caratteristica particolare era che non lasciava mai spegnere del tutto il fuoco in cucina. La sera seppelliva le braci ardenti sotto la cenere per accendere di nuovo il fuoco all’alba. Era considerato un sacrilegio andare a prendere il fuoco da altre case o darlo ad altri. Se qualcuno voleva il fuoco da noi, lei si arrabbiava e rimarcava alle persone l’importanza di pensarci la sera la prossima volta, così come faceva lei, per assicurarsi che ci fosse ancora il fuoco la mattina. Eze metteva in pratica l’insegnamento zoroastriano27. Per lei preservare il fuoco faceva parte della vita, così come cercare riparo nella luna e nel sole e essere legati alla terra.
(pp. 29-32)
Imparare il turco: nient’altro che una tortura
Mio padre dopo il servizio militare era diventato impiegato pubblico. Aveva superato l’esame presso la scuola di architettura e aveva iniziato a lavorare come segretario. A quel tempo avevo già imparato alcune parole turche, come “madre” e “padre”. Man mano che mi venivano insegnate le prime parole in turco, correvo al centro del paese e le ripetevo a gran voce per far arrabbiare gli altri ragazzi della mia età. Quel periodo in cui ho imparato le prime parole turche, è uno dei ricordi più vivi della mia infanzia nel villaggio. All’epoca nessuno mi costringeva a imparare questa lingua. […]
La mia insegnante di prima elementare fu una donna turca di nome Gönül. Ci fece lezione fino al terzo anno. Imparare il turco era una vera tortura. Era molto difficile, sebbene fossimo desiderosi di im- parare. Le nuove parole le imparavamo alla svelta. I nostri insegnanti ci consigliavano di parlare sempre turco anche fuori dalla scuola. “Se parlate curdo, verrete picchiati”, dicevano. Questa minaccia, insieme ad alcuni compagni di scuola appositamente incaricati di controllarci, ci portò a imparare più in fretta.
La carriera di impiegato di mio padre cambiò inevitabilmente il nostro tenore di vita in una certa direzione. Avevamo pane di farina bianca e portavamo le scarpe.
(Pp. 32-33)
Un consiglio di mia madre: ”Non vergognarti di essere curda!”
Come risultato degli sforzi di mio padre, ci trasferimmo in un appartamento gratuito riservato agli impiegati in un complesso statale. Si dovevano pagare solo l’elettricità e l’acqua. I soldi per l’affitto non li avevamo comunque. Gli alloggi venivano assegnati principalmente al personale amministrativo. Funzionari con conoscenze, che aveva- no già una carriera, venivano alloggiati in abitazioni più grandi e migliori. Il nostro appartamento era all’ultimo piano ed era composto da due camere e un casotto di legno. Sullo stesso piano vi erano altri due appartamenti nei quali anche vivevano famiglie.
Vivere in un alloggio pubblico a Dersim, significava essere contigui allo Stato e lavorare per le istituzioni. Vivere lì conferiva a chiunque la reputazione di essere associati con lo Stato. La nostra trasformazione in turchi fu accelerata dall’ambiente che avevamo intorno. Vivevamo in mezzo a famiglie di funzionari e di poliziotti che avevano imparato bene il turco o erano essi stessi turchi. In un certo senso era come una continuazione della scuola per noi. Ovviamente a quel tempo lo percepivamo come un vantaggio. Nel frattempo avevamo anche imparato a parlare bene in turco. Era l’inizio di una triste realtà che mia madre mi metteva davanti e che io ancora venti anni dopo avrei dovuto sentire in maniera più forte: la vergogna della propria origine curda.
Insistetti con la mia famiglia per parlare turco a casa, così mia madre avrebbe imparato più velocemente e non si sarebbe resa ridicola di fronte ai vicini. Accadde che le dissi: “Fai errori quando parli, mi metti in imbarazzo”. E allora mi disse che non dovevo vergognarmi della mia origine curda. Negli anni successivi, quando ebbi acquisito una maggiore consapevolezza di queste cose, mi ricordai le sue parole e mi pentii di aver provato vergogna. Fu solo allora che mi resi conto di quanto mi era diventata estranea la mia lingua madre.
(p. 39)
L’uomo che ha viaggiato per i mari2?
Al quartiere Dağ iniziai la scuola media. Una parte dell’edificio scolastico del Ginnasio di Tunceli era riservato alla scuola media. Alla radio e sui giornali, c’erano sempre più notizie sui disordini. Il nome di Deniz Gezmiş e del suo gruppo capitava sempre più spesso. Era solo uno dei tanti nomi, ma veniva citato più di frequente e attirava maggiormente l’attenzione. All’inizio avevo capito che si parlava di un uomo che aveva viaggiato per i mari. Non capivo ancora perché si parlasse tanto di lui, ma dominava sempre più le notizie.
Per la prima volta sulle strade principali venivano attaccati mani- festi sui quali erano riprodotte foto del gruppo di Deniz Gezmiş e particolari delle loro vite personali. Le persone commentavano le immagini piene di interesse. Quando erano tra loro, si sentivano frasi come: “Che ragazzi eroici!”.
Davvero sembravano eroi, con il loro sguardo coraggioso e il loro atteggiamento spavaldo. Ognuno aveva una sua bellezza e nei loro occhi c’era una luce, di speranza e di lotta. Avevano uno sguardo di sfida sul volto. Consapevolmente o inconsapevolmente, erano tutti impressionati da loro. Non si sapeva cosa avevano fatto. Erano de- finiti “terroristi” e “contrabbandieri comunisti” o insultati come as- sassini, ladri e criminali. Per informazioni su di loro era stata promes- sa una grossa ricompensa. Nessuna persona di coscienza avrebbe potuto commettere un tale tradimento. Era possibile che ci fossero persone così disumane e senza scrupoli?
Sulla strada per la scuola osservai con curiosità i manifesti appesi a un cartellone su un palo della luce a un incrocio. Dopo aver letto la scritta “si offre una ricompensa per le informazioni”, il mio sguardo scivolò sulla gente in strada. Guardai ogni singola persona come se si potesse capire se sarebbero state in grado di farlo. Qualcuno stor- ceva la bocca, altri sembravano felici e altri ancora sussurravano fra loro, che fantastici giovani fossero. In quel momento nella mia testa presi la decisione che sarei tornata lì nella pausa per strappare tutti i manifesti. Volevo farlo con un paio di amiche. Forse non avremmo potuto strapparli tutti, ma c’erano posti dove era possibile. Si dice- va che un altro manifesto fosse stato attaccato accanto all’ingresso dell’ospedale. Lì avrebbe potuto essere più facile, perché era possibi- le entrare facilmente nell’edificio almeno al piano terra. Solo ai piani superiori l’accesso talvolta era chiuso.
Insieme con le mie amiche mettemmo in atto il mio piano. Strap- pammo tanti manifesti per quanto ci fu possibile durante la pausa. Erano stati appesi in posti che erano più alti delle nostre teste con un forte collante. I più facili furono quelli all’ospedale. Ma la cosa non era ancora sistemata. Avevamo pensato che non sarebbero stati appesi altri manifesti e che quindi nessuno dei ricercati sarebbe stato trovato. Erano pensieri molto infantili.
Ma no! Era stato posto il seme della rivolta nel mezzo della nostra infanzia. I cambiamenti in atto portarono il completo scompiglio nei nostri sentimenti e nei nostri pensieri. Imparammo qualcosa di nuovo.
(Pp. 60-62)