In avvicinamento alla giornata di sciopero transfemminista dell’otto marzo, la libreria popolare propone un pomeriggio di letture collettive a partire da un primo piccolo percorso tematico nel tempo e nello spazio di letture narrative e poetiche contro la violenza patriarcale, sulla forza e la tenacia delle donne e delle soggettività LGBTQIA+. Una prima selezione di brani, una scelta tra poesie e romanzi, costruito con la lente femminista e transfemminista, a partire da immaginari di scrittorə che per primə hanno vissuto e vivono la loro vita come una lotta e che nelle loro parole hanno avuto la capacità di dare voce a quelle di tantissimə. Di seguito alcuni dei brani selezionati
ORMAI CI ALZIAMO E CE NE ANDIAMO: UNA SCENA PER CUI DAREI L’80% DELLA MIA LIBRERIA FEMMINISTA
di Virginie Despentes (01.03.2020)
“Sì, siamo le puttane, le umiliate. Sì, dovremmo solo starcene zitte e ingoiare, voi siete i capi, detenete il potere e l’arroganza che lo accompagna, ma non ce ne staremo sedute senza dire niente. Non avrete il nostro rispetto. Ci siamo rotte. Continuate pure con le vostre cazzate, ma da soli. Celebratevi, umiliatevi gli uni gli altri, uccidete, stuprate, sfruttate, distruggete tutto quello che vi passa per mano. Noi ci alziamo e ce ne andiamo”.
È forse una delle immagini annunciatrici dei giorni che verranno. La differenza non sta tra uomini e donne, ma tra dominati e dominanti, tra coloro che intendono appropriarsi della narrazione altrui e imporre le loro decisioni e coloro che si alzeranno e se ne andranno gridando.
È la sola risposta possibile alle vostre politiche.
D’ora in poi, quando superate la linea, ci alziamo, ce ne andiamo, gridiamo, vi insultiamo e, anche se stiamo in basso, anche se siamo coloro a cui il vostro potere di merda viene sbattuto in faccia, vi disprezziamo e vi schifiamo.
Non portiamo alcun rispetto per la vostra pagliacciata di rispettabilità. Il vostro mondo fa vomitare. Il vostro amore più intenso è perverso. Il vostro potere è spettrale. Siete una banda di imbecilli funesti. Il mondo che avete creato per esserne re e despoti è irrespirabile.
Ci alziamo e ce ne andiamo. È finita. Ci alziamo. Ce ne andiamo.
Con tutta la voce che abbiamo. Vaffanculo””
MI PIACEREBBE VIVERE
Brano tratto da Un appartamento en Urano – Paul Beatriz Preciado, (28.04.2017)
I ricordi del mio ultimo viaggio in California ritornano con l’intensità di una finzione, come se fossero estratti da una novella di Ursula K. Le Guin. I colori sono più radiosi nella realtà di Kassel. L’odore del mare, la lucentezza della pelle, le foche o le grida dei manifestanti nelle strade lampeggiano nella mia mente con la consistenza che possiede solo ciò che esiste nella narrazione letteraria.
In quel romanzo, un certo Donald Trump aveva vinto le elezioni democratiche di un paese chiamato Stati Uniti d’America. Aveva promesso di costruire un muro lungo il confine con il Messico. Aveva aumentato di 54 miliardi il bilancio militare del paese. Aveva affermato che la tortura era necessaria per estrarre la verità dei fottuti terroristi.
Aveva detto in pubblico che la cosa più importante che una donna ha è il suo bel culo.
In quel romanzo, per sentirsi uniti di fronte a ciò che stava accadendo Annie Sprinkle e Beth Stephens organizzavano una cena con i loro amici nella loro casa di San Francisco. La cena era un rituale in cui ogni partecipante era stato invitato a dare qualcosa e a prendere qualcosa.
L’artista Mexicano/statunitense Guillermo Gomez-Peña aveva composto un poema che iniziava così: «Vorrei vivere come se Donald Trump non esistesse. Vorrei svegliarmi come se Donald Trump non avesse vinto le elezioni. Come se Donald Trump non fosse ora presidente del governo.»
Nessuno poteva emettere una risata, né fare un solo commento. Nel bel mezzo della notte, il silenzio del salotto permetteva di sentire il canto degli uccelli come se qualcuno lo avesse registrato in alta definizione e lo stesse riproducendo ora con una protesi impiantata direttamente nel giro trasversale di Heschl, nelle aree 41 e 42 della mappa di Brodmann, nella corteccia primaria dei nostri cervelli.
Gli uccelli che cantano e la voce di Guillermo divennero scalpelli che graffiavano una scultura composta d’aria e vibrazioni uditive.
“Vorrei camminare verso Tijuana come se Donald Trump non esistesse. Non voglio dire il suo nome, perché vorrei vivere come se Donald Trump non esistesse.»
Non so se sogno o se ricordo. Mi assale l’immagine del corpo di Guglielmo come un’apparizione verginale. La vergine indiana del confine. I canti degli uccelli si confondono con le urla dei bambini in un parco di cemento che si guarda da una delle finestre del Fridericianum. Il ritmo di lavoro che richiede il montaggio e la presentazione dell’esposizione documenta 14 ore, rimanere ventiquattro ore all’interno del museo. Assemblare opere d’arte mi fa sembrare sempre più difficile distinguere la realtà dalla finzione.
La mia vita passata dispiega come se fosse una storia che ho letto tempo fa e ora non sono in grado di ricordare con precisione. Una storia in cui io stesso avevo un altro volto, un’altra voce, un altro nome.
La nostra storia comune si disfa. E ne appare un’altra che un altro forse avrebbe potuto scrivere nel 1933 o nel 1854 o nel 1804 o nel 1497. Sono mesi che non torno a Parigi. Tutte le mie cose sono nell’ultima casa in cui ho vissuto. La donna che continua a vivere in quella casa mi scrive e mi dice che oggi ha conservato gli ultimi oggetti che mi ricordavano nel ripostiglio. Mi scrive: «Il ripostiglio è ghiacciato. Ho visto di nuovo le cose tra cui abbiamo vissuto. Con cui siamo stati felici.» Le rispondo, mentendo: «Ricordo ogni minuto che abbiamo vissuto insieme. » Ma non me lo ricordo. Ora lo immagino.
La politica è un testo di finzione in cui il libro è il nostro corpo. La politica è un testo di finzione,
con l’unica eccezione che è scritto, con tanto sangue come inchiostro, collettivamente. In quel testo di finzione tutto è possibile: un muro che separi gli Stati Uniti dal Messico, la totale chiusura delle frontiere per i portatori di documenti di identità dei paesi arabi, la privatizzazione della sanità pubblica, la criminalizzazione dell’omosessualità e dell’aborto, la condanna a morte dei portatori di HIV, la prigionia istituzionale delle persone con differenze fisiche o personali.. la storia ci insegna che sempre tutto, dal piu’ assurdo al piu’ brutale, è stato politicamente possibile: è stato possibile per l’antica Grecia edificare un sistema democratico (che ancora ammiriamo) che escludeva donne, bambini, schiavi e stranieri; è stato possibile sterminare la popolazione indigena delle isole atlantiche e del continente americano, è stato possibile costruire il sistema economico delle piantagioni in cui un 15% della popolazione bianca schiavizzava un 85% della popolazione che era stata catturata in Africa. E’ stato possibile installarsi in Algeria e chiamare idiota la popolazione che era nata li’.
E’ stato possibile cacciare i palestinesi dalla loro case; è stato possibile dire alle donne che se non partorivano non esistevano; è stato possibile costruire un muro nel mezzo di Berlino per separare l’Occidente e l’Oriente, il bene e il male; è stato possibile convincere la gente che il sesso era opera del demonio.
RIcordo o immagino di nuovo la voce di Guillermo: «Mi piacerebbe vivere come se Marine Le Pen e Emmanuel Macron non esistessero. Vorrei svegliarmi come se Marine Le Pen e Emmanuel Macron non avessero vinto le elezioni.»
MI PIACE PENSARE AD HARRIET TUBMAN *
di Susan Griffin (1970)
Mi piace pensare a Harriet Tubman.
Harriet Tubman che andava in giro col revolver,
che aveva una cicatrice in testa per via di un sasso tiratole da un padrone di schiavi (lei gli aveva risposto), e una taglia di migliaia di dollari ma non fu mai presa,
che non sapeva che farsene della legge quando la legge era ingiusta, che si ribellava alla legge.
Mi piace
pensare a lei.
Mi piace pensare a lei soprattutto
quando penso al problema dell’alimentazione dei bambini.
La soluzione legale al problema dell’alimentazione dei bambini
è dieci pasti gratis al mese,
che corrisponde, nella vita reale del bambino, a un pasto un giorno sì, uno no.
Il lunedì sì, il martedì no.
Mi piace pensare al Presidente che mangia il lunedì, ma non
il martedì.
E quando penso al Presidente
e alla legge, al problema
della alimentazione
dei bambini, mi piace pensare a Harriet Tubman e al suo revolver.
E poi a volte
penso al Presidente
e agli altri uomini,
gli uomini che esercitano la legge,
che riveriscono la legge,
che fanno la legge,
che amministrano la legge
che vivono
e operano
e mangiano
alle spalle dei bambini che muoiono di fame
grazie alla legge,
uomini che siedono in uffici eleganti
e pensano alle vacanze
e dicono alle donne
a cui spetta
di nutrire i bambini
di non essere isteriche
isteriche nel senso di isterikos,
la parola greca per utero sofferente,
di non soffrire nel loro utero,
di non preoccuparsi, di non seccare gli uomini
che vogliono pensare
ad altro
e non vogliono prendere sul serio le donne.
Io voglio
che prendano le donne sul serio.
Voglio che pensino ad
Harriet Tubman,
e ricordino,
ricordino che è stata picchiata da un uomo bianco
e ha vissuto
e ha vissuto per raddrizzare i torti,
e ha vissuto nelle paludi
e indossato abiti da uomo
e guidato centinaia di schiavi
via dalla schiavitù, e non è mai stata presa,
e ha condotto un esercito, e vinto una battaglia,
e sfidato la legge
quand’era ingiusta,
voglio che gli uomini ci prendano sul serio.
Sono stanca che siano loro a pensare al giusto e all’ingiusto. Voglio che abbiano paura.
Voglio che provino paura ora
come io ho provato dolore nell’utero,
e voglio che sappiano
che arriva sempre il momento
che arriva sempre il momento della giustizia,
arriva sempre il momento
della punizione
e quel momento
è arrivato.
Brani tratti dal È UNA DONNA CHE VI PARLA STASERA* di Alba de Céspedes
*Nota di contesto: L’armistizio dell’8 settembre 1943 impone alla vita di Alba de Céspedes un cambiamento radicale: la scrittrice sente dentro di sé il dovere morale di «fare qualcosa per l’Italia». Con il futuro marito, il diplomatico Franco Bounous, decide di fuggire da Roma e si trova a trascorrere alcune settimane alla macchia nei boschi d’Abruzzo prima di riuscire ad attraversare il fronte e raggiungere al Sud l’Italia liberata. Grazie a questa esperienza cruciale Alba scoprirà nel popolo italiano e in particolare nella “gente d’Abruzzo” un’umanità nuova. Sotto lo pseudonimo di Clorinda, la donna-guerriera della Gerusalemme Liberata, dal novembre 1943 fino al giugno 1944 dirigerà le trasmissioni di L’Italia combatte! Da Radio Bari parlando ai «patrioti» e alle «patriote» che al Nord devono ancora convivere con l’invasore tedesco suggerisce atti di sabotaggio accanto a forme di resistenza civile; qualche mese più tardi, da Radio Napoli sollecita a riflettere sui valori da condividere nella nuova Italia per restituire l’autentico significato a parole come patria, civiltà, dignità e, soprattutto, libertà, che erano state totalmente stravolte dal fascismo. Le veline delle sue trasmissioni radiofoniche, qui accompagnate da pagine di diario e da stralci di lettere, non raccontano solo gli eventi da cui nasce la “nuova Alba”, ma anche un’esperienza che è morale e politica prima ancora che intellettuale. Ne resterà traccia nei racconti e nei grandi romanzi del dopoguerra, e fin da subito nelle pagine di «Mercurio», la rivista che lei stessa definisce un «balcone da cui guardare all’Europa e a un mondo nuovo».
ALLE TELEFONISTE
Telefoniste italiane delle zone ancora occupate dai tedeschi, attenzione! Abbiamo bisogno del vostro aiuto. Voi, proprio voi, personalmente, col vostro sordo continuo sabotaggio potete combattere al modo di un patriota o di un soldato.
Le vostre cuffie, le vostre lampadine, le vostre spine sono le vostre armi. Dovete usarle per ostacolare, intralciare il lavoro dei fascisti e dei tedeschi. A voi vengono richiesti i numeri interurbani, dalla vostra sollecitudine dipendono importanti conversazioni. Se il telefono non risponde, se la comunicazione non giunge in tempo, ordini urgentissimi non possono essere dati, contrordini non possono essere trasmessi. Oggi, voi, telefoniste italiane dovete essere pigre, indolenti, sornione. Dovete richiedere le comunicazioni quando sapete che gli uffici sono già chiusi, dovete rispondere spesso, molto spesso: la linea è interrotta, la linea è occupata. Passare per semplice una telefonata richiesta ur-gentissima. Dire «la persona è fuori ufficio» oppure: «il numero non risponde». Dimenticare o comunicare in ritardo i messaggi che vi sono affidati. E, soprattutto, mai richiedere con sollecitudine la riparazione di una linea guasta, non accusare il guasto, anzi, finché non diviene evidente. Voi do-vete, insomma, far tutto quello che potete per paralizzare, rallentare il vostro lavoro: così facendo paralizzerete, rallenterete il lavoro dei tedeschi. Spesso dovete abbandonare per qualche giorno il vostro posto. Voi sapete bene come una telefonista si sostituisce difficilmente, talvolta è finanche impossibile sostituire efficacemente un’abile telefoni-sta. Dovete rimanere in casa accusando un’influenza o un mal di denti, malattie non controllabili: se avete una collega dovrete essere d’accordo con lei per darvi malate nello stesso giorno. Voi siete furbe e intelligenti, telefoniste ita-liane, sapete meglio di noi quel che potete fare. Basterà che sentiate in voi quanto sia necessario aiutarci e quanto colpevole sia non combattere al nostro fianco. Voi non potete lavorare al fianco dei tedeschi; è vostro imprescindibile dovere intralciare il loro ingranaggio, essere solidali con noi per affrontare il giorno della libertà e della pace.
ALLE IMPIEGATE
«Alle impiegate»
Vorrei dire, stavolta, due parole alle donne che lavorano, alle dattilografe, alle stenografe, alle segretarie, a tutte le impie-gate, insomma. lo so che voi udite, talvolta, i nostri suggerimenti per i patrioti e vorreste essere uno di loro per far si che, anche attraverso il vostro aiuto, si faccia più prossima l’ora della pace e della libertà. Credete di non poter far nul-la, voi, chiuse nel giro della vostra vita consueta, casa e uf-ficio, casa e ufficio. Credete. E invece io vi dico che potete, voi, proprio voi, col vostro grembiulino nero, davanti alla vostra macchina da scrivere, essere altrettanto utile di un patriota o di un soldato. Ci sono anzi cose che essi vorrebbero fare e non possono, cose che non potete fare che voi.
A voi sono dettate certe lettere che avrebbero, a volte, tutt’altro significato con un piccolo errore di macchina, con una parola saltata. Ordini importantissimi vengono dattilografati da voi e una data alterata può essere più utile di 10 fucili. Siete voi che aprite la corrispondenza e potete stracciare una lettera che giudichiate dannosa. Tante lettere non arrivano, anche quella non è arrivata. E così per le lettere in partenza: un ordine partito in ritardo, diviene, a volte, inutile addirittura. Talvolta basta trattenere soltanto qualche ora una lettera, un telegramma. Sbagliare un indirizzo è poi ancora più facile; ciò basterà a far perdere quelle ore che sono necessarie, o a far perdere la lettera o il messag-gio, addirittura. E soprattutto, ricordate, è vostro dovere, distruggere, alterare, gli ordini diretti contro i patrioti, contro gli antifascisti, gli ordini diretti dai tedeschi contro gli italiani. E vostro dovere imprescindibile, questo. È vostro dovere aiutare coloro che ogni giorno rischiano la vita per voi, perché la vostra liberazione sia più prossima.
Vi chiediamo un continuo, sordo, sabotaggio sotterraneo.
Ricordatevi che per essere un patriota è necessario odiare i tedeschi e i fascisti. E voi li odiate, lo so. Ma dovete odiarli dal mattino alla sera, pensando, studiando continuamente il modo di nuocere loro. E vi sentirete più forti, dentro di voi, dopo il piccolo errore alla macchina, dopo la lettera strappata o spedita in ritardo, vi sentirete complice e compagna dei patrioti che combattono sulle montagne, di noi che siamo qui, esuli, lavorando per la libertà.
Dattilografe, impiegate, donne italiane, non dimenticate che abbiamo bisogno di voi.